lunedì 27 maggio 2024

GIARDINI

L’immagine del giardino ha sempre connotato, nella nostra cultura come in quella dei popoli orientali, la dimensione estetica del vivere. Dimensione estetica nel senso del piacere – ed in questo furono maestri gli arabi e gli antichi greci – ma anche in quello più profondo della creatività e della contemplazione. Il giardino diventa in questo caso luogo mentale, centro dove si cerca l’armonia l’ordine che rispecchi una determinata visione del mondo. Il tempo del giardino è dunque il tempo umano in sottile equilibrio fra il tempo del lavoro, quello ludico del piacere e del gioco e quello interiore della spiritualità. Un tempo privilegiato dell’esistere che fu a lungo uno dei pochi spazi sociali della donna, essa stessa identificata da un certo tipo di cultura come hortus conclusus, giardino intimo, raccolto. La discussione di tipo sociologico ci porterebbe troppo lontano dal discorso che qui ci interessa. Mi sembra però necessario almeno un accenno per ricordare come anche per le donne delle classi sociali più povere il giardino – unito in questo caso alle funzioni più umili e pratiche dell’orto, o sintetizzato nello spazio ristretto del balcone, della finestra fiorita, del terrazzo – fu il luogo del breve riposo o del lavoro più leggero, il ricamo, il piccolo cucito, il lavoro a maglia. Lavoro solitario a volte, altre volte – e qui il discorso si fa più interessante – collettivo. Si conversava, nel giardino o nell’orto, o sedute alla finestra odorosa di gerani, di vasi di basilico. Si trattava spesso di discorsi futili, di pettegolezzi, ma qualche volta no. Qualche volta si ascoltavano i racconti, le storie. I versi e le canzoni, eseguiti da qualcuna di loro, cantatrice esperta. Tipo estroso di novellatrice o anche da un uomo, ammesso alla loro compagnia, amico dell’una, amante dell’altra, un garzone, un menestrello di passaggio, un burlone, un cantastorie affamato o un merciaio ambulante, uno scanzonato dongiovanni. La letteratura e le cronache del nostro medioevo ci hanno reso familiare questa situazione tipica, sublimata dall’arte dei Decameroni, dei Cunti, delle Corti d’Amore, dei giardini dell’harem, pericolosi per gli uomini. Giardini d’Eva, di Armida, di Calipso, conventi, tìasi. La spiritualità, le attitudini sociali della donna, furono custodite ma anche severamente circoscritte dagli spazi ristretti della casa, dell’orto, del giardino. Oggi dopo lotte e sofferenze che sono ben lontane dall’essersi concluse e che vedono anzi continui fenomeni di riflusso, è almeno teoricamente acquisito il diritto della donna ad uscire dalla dimensione dorata del giardino verso quella – in altre culture e in altre epoche mantenuta egregiamente – della città. La conquista faticosa della dignità, dell’indipendenza economica, della realizzazione culturale, ha portato anche al ritorno di una figura tutt’altro che guardata con sospetto nelle civiltà più evolute dell’antichità: la donna che dedica le sue energie, oltre che al lavoro e alla casa, a una passione intellettuale, esattamente come avviene all’uomo. Ed ecco allora questo tipo di donna ricondurre la dimensione raffinata del giardino – questa volta non più imposta bensì rifatta propria – nello spazio lavorativo, economico, della città. Ecco l’artigianato artistico dalle radici millenarie (non dimentichiamo che la decorazione è stata fin dalla preistoria affidata a un gusto prevalentemente femminile), la tessitura, il ricamo, la lavorazione dell’oro, della ceramica, della carta. Ecco infine la riconquista del rispetto sociale per la donna che ha la passione della ricerca formale, pittura, scrittura, arti plastiche, fotografia. Rivendicare il giardino diventa così un messaggio civile, che non vale soltanto per la donna ma anche per l’uomo, alienato da un lavoro astratto e irrazionale che sconfina nel patologico delle nevrosi. Significa riproporre la fiaba orientale del giardino come condizione di autentica umanità, dove il lavoro sia a misura d’uomo e l’armonia la sua più alta aspirazione. (Luglio 1992)

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